Tra i fattori che hanno portato al trionfo del Partito Liberale nelle elezioni federali canadesi la settimana scorsa c’e sicuramente il carisma personale del quarantatrenne Justin Trudeau, figlio del primo ministro forse piu’ amato, ma anche discusso, nella storia del Canada, quel Pierre Trudeau che ha governato il paese della Foglia d’acero tra il 1968 e il 1984.
Un carisma inclusivo, quello del giovane Trudeau, tanto piu’ attraente dopo i tre mandati consecutivi del primo ministro uscente, il conservatore Stephen Harper, che con la sua leadership “fredda” e autoritaria, tutta focalizzata sul rigore finanziario, ha finito per dare una marcia in piu’ a quel bisogno di “real change” su cui Trudeau ha impostato la campagna elettorale.
Trudeau ha vinto da outsider, nonostante il nome ingombrante e il marchio del predestinato, cresciuto nella residenza del primo ministro canadese e ritratto da bambino, mentre il padre, in visita ufficiale, entrava al numero 10 di Downing Street, accolto da Margaret Thatcher.
Trudeau e’ partito dai 36 seggi della passata legislatura per arrivare ai 188 di quella appena cominciata, e questo a dispetto di una campagna mediatica da 25 milioni di dollari con cui i Conservatori hanno cercato di azzopparlo, bollandolo come “Just not ready‘‘ e ironizzando sulla zazzera da ribelle e sulla sua ammissione di aver fatto uso di marijuana.
Certo, Trudeau ha vinto anche perche’ ha promesso di ridurre le tasse alla classe media, di investire in infrastrutture, scuola e sanita` per creare occupazione e di rimettere l’ambiente al centro dell’agenda politico-sociale, laddove Harper per 10 anni ha usato l’ascia sulla spesa sociale, portando il Paese dove e` nata GreenPeace a basare il proprio futuro soprattutto sul petrolio estratto dalle sabbie bituminose dell`Alberta, fuori dal protocollo di Kyoto.
Per costruire questa piattaforma elettorale Trudeau non ha avuto paura di preannunciare tre anni di deficit nei conti pubblici, a differenza dello stesso Harper e di Tom Mulcair, leader del NDP, il partito di centrosinistra che invece era tradizionalmente considerato il partito della spesa pubblica.
Ma e` sul tema dell”immigrazione che Trudeau ha avuto partita vinta alle elezioni ed e’ sull’immigrazione che il neo-primo ministro scommette per realizzare il suo programma, facendo propri i calcoli di chi traduce in aumento di punti percentuali di PIL l’aumento dei flussi (secondo l`economista Peter Dungan, ad esempio, 100 mila immigrati in piu` equivalgono a 2,6 punti percentuali di PIL in 10 anni).
Una immigrazione indispensabile non solo per compensare l’invecchiamento demografico, ma anche per aumentare la base imponibile, dando impulso all’economia attraverso l`innovazione (il 35% dei ricercatori universitari in Canada e` immigrato).
Per il Canada si tratta di un ritorno al passato, non solo al mito fondativo del Paese, quando il cattolico Alfred Laurier, citatissimo dal Trudeau in campagna elettorale, aveva fatto dell’apertura all’immigrazione la missione storica del Canada, ma anche agli anni sessanta, quando il Canada era diventata una Super-Potenza morale, mandando centinaia di charter a recupere e poi accogliere 50 mila boat people che fuggivano dal Vietnam in fiamme.
L’immagine di Ayalan Kurdi, il bambino siriano a faccia in giu’ sulla spiaggia di Bodrum e che sognava di emigrare a Vancouver, ha fatto da catalizzatore emotivo per questo ritorno al passato, e tra i primi gesti simbolici compiuti dal neo primo ministro c’e’ stata la serie di selfie con le donne musulmane col niqab nella metropolitana di Toronto e l’annuncio della decisione di accogliere 25 mila profughi siriani.
Il contrasto con i ritardi e le incertezze dell’Europa nella gestione della crisi migratoria, con il pendolo tra l’attivismo coraggioso e calcolato della Merkel e il filo spinato del primo ministro ungherese Orban, non potrebbe essere piu’ stridente: qui ci si preoccupa non solo di aumentare il numero di immigrati, ma anche di colmare il gap esistente nei redditi tra nati in Canada e nati all’estero, sul presupposto che il benessere economico dell’immigrato si traduca nel benessere economico del Paese, tanto piu’ a fronte del calo dell’ immigrazione da India e Cina, divenuti paesi in grado di garantire un tenore di vita migliore alle risorse qualificate che una volta si sarebbero trasferite e di cui il Canada ha un disperato bisogno per alimentare il suo modello economico.
La verità è che anche in Canada non ci sono più gli spazi vuoti della sua infanzia di Nazione in via di formazione: il 75% dei canadesi vive entro 160 chilometri dal confine con gli Stati Uniti e i nuovi arrivati tendono a concentrarsi nelle grandi città come Toronto, Montreal e Vancouver, determinando un sovraccarico della domanda di servizi che mette a dura prova le infrastrutture cittadine. Eppure nonostante questo i Canadesi hanno chiesto e ottenuto un cambiamento reale, per tornare ad essere quello che sono da 150 anni: immigrati aperti ai nuovi immigrati..