Una premessa: tutti i riferimenti contenuti in queste pagine a verbi, sostantivi e aggettivi che fanno parte non solo del gergo dei consumatori di cannabis, ma anche del linguaggio comune, sono del tutto voluti. Me ne scuso con chi legge, ma se i mercati finanziari sono euforici, le previsioni economiche sono sballate e i miliardi degli investitori rischiano di andare in fumo, beh, la colpa non é mia. Nemmeno se l’erba del vicino é sempre più verde, come pensano gli Americani dei Canadesi.
Tempo di lettura: boh, ma mettiti comodo perché é lungo. Del resto, non puoi ragionare di cannabis se non ragioni anche di tabacco, alcol e fentanyl. O no?
Perche’ leggere ‘sto papiro: ovvio, le canne le fumi o usi la maria per curarti i reumatismi. O con la cannabis pensi di farci il grano investendo in Borsa, o aprendo un negozio. Oppure sei un politico e sei convinto che liberalizzare l’uso ricreativo della marijuana sia un’idea facile facile per far crescere il PIL e raccattare un pò di voti. Ma potresti trovare una chicca anche se sei un avvocato, un medico, un pubblicitario o un direttore del personale. I complottisti si divertiranno sul perche’ la cannabis e’ diventata illegale e gli investitori …. no, per loro niente perche’ possono pagarsi un report di Deloitte.

Nell’ottobre dello scorso anno, un esercito di millennials canadesi si sono dati da fare sui loro profili Facebook e Instagram per sostituire, nel bianco della bandiera nazionale, la foglia d’acero con la foglia di marijuana.
Uno dei tanti modi con cui é stata celebrata l’entrata in vigore del Cannabis Act, la legge federale che permette a un maggiorenne di girare in pubblico con 30 grammi di erba in tasca (l’equivalente di 60 spinelli) e di coltivare 4 piante a casa.
Il Canada é così diventato il primo membro del G7 ad aver dato il via libera all`uso ricreativo della marijuana, aggiungendosi all’Uruguay e una decina di stati negli USA.
Pochi mesi più tardi, l’industria della cannabis veniva non solo invitata al World Economic Forum di Davos, ma anzi celebrata da un “Cannabis Conclave”, officiato dall’ex primo ministro israeliano Ehud Barak, attualmente presidente di InterCure, azienda che commercializza marijuana per uso medico, e da Bruce Linton, CEO di Canopy Growth, azienda canadese di cui Constellation, proprietaria della birra Corona, detiene il 40%, pagato 4 miliardi di dollari.
Imprenditori alla guida di aziende dai nomi non di fantasia come Namaste Technology, Heaven’s Stairway, Weekend Unlimited o Alternative Harvest, sono entrati così a pieno titolo nella foto di famiglia delle elites economiche mondiali.
Insomma, la cannabis non é più un tabù. Inevitabilmente, se pensi che ha più di 230 milioni di consumatori a livello planetario.
Negli Stati Uniti, la cui prima Costituzione, ironicamente, é stata stampata su carta di canapa, in ben 5 sondaggi nazionali nel 2018 i favorevoli alla cannabis per uso ricreativo sono stati stabilmente sopra il 60% (al 73% nella fascia 18-34 anni e al 94% per l’uso terapeutico) e sono raddoppiati dal 2000 a oggi.
In un Paese come il Canada, che si percepisce come una superpotenza morale, la legalizzazione dell’uso ricreativo della cannabis é stata vissuta come il riconoscimento di un diritto civile, e non solo per il 15 % della popolazione che la consuma in modo sistematico.

Il primo ministro Justin Trudeau ne aveva fatto un punto di programma nel 2012 quando era ancora solo il leader del Partito Liberale: “Non sono per la decriminalizzazione della cannabis. Voglio legalizzarla, regolarla e tassarla”.
Trudeau, che non fuma e beve poco alcol (ma non il caffé), si era anche rifiutato di fumare cannabis in pubblico per celebrare il 17 ottobre, il V-Day degli anti-proibizionisti: “Ne ho fatto uso 5 o 6 volte nella mia vita, ma non mi piace. Non vogliamo regolare la cannabis perché pensiamo che faccia bene alla salute. Al contrario, vogliamo regolarla perché sappiamo che non fa bene ai nostri bambini. É un prodotto da non raccomandare”, erano state le sue parole.
Nella narrativa del primo ministro, la fine del proibizionismo serviva principalmente a togliere proventi enormi alla criminalità organizzata (3 miliardi di dollari all’anno, secondo alcune stime).
Ma anche ad alleggerire il sistema giudiziario e a liberare risorse per la lotta agli oppioidi, responsabili di una strage infinita che ha fatto 4 mila morti in Canada nel 2017 (più di 72 mila negli Stati Uniti).
A quasi 6 mesi dalla legalizzazione, il Canada si trova a tracciare un primo, difficile bilancio.
Il Governo della Cautela.
Va da sé che legalizzazione significa soprattutto educazione del consumatore. Il materiale informativo messo online da Ottawa – che ha stanziato 100 milioni di dollari in 6 anni per informare il pubblico – illustra senza reticenze i pericoli e i benefici delle due più importanti molecole, tra le oltre 700 che sono presenti nella cannabis: il THC, la componente psicoattiva, calmante o euforizzante, e il CBD, con le sue proprietà anti-infiammatorie e analgesiche utili per l’uso medicale .
Piccola digressione: la cannabis é una sorta di alter ego della canapa. La tentazione di chiamare in causa Dr. Jeckill e mr. Hide é forte, ma di fatto siamo di fronte alla stessa pianta, sia pure con un diverso quadro genetico.
Nella canapa – fibra, alimento, biocarburante – il CBD predomina e il THC é presente in tracce, mentre nella cannabis – terapia, euforia e relax – il THC é presente in modo più significativo, progressivamente più significativo visto che, dagli anni ‘80 a oggi, ha aumentato la sua concentrazione media dal 3% al 15%, con punte del 30%, come effetto della reingegnerizzazione genetica della pianta.
Nel breve termine, il THC contenuto nella marijuana compromette la capacità di guidare un’auto o di far funzionare un macchinario, di concentrarsi, di imparare, di ricordare. Aumenta i tempi di reazione, può causare attacchi di panico o ansietà o episodi di allucinazione o paranoia. Deprime la pressione sanguigna, accelera il battito cardiaco. Nel lungo periodo, può determinare insonnia, perdita di memoria e una diminuzione del quoziente di intelligenza.
Sconsigliatissimo l’uso durante la gravidanza e l’allattamento. In più, la cannabis sarebbe incompatibile con la condizione di essere genitori di un bambino piccolo, perché renderebbe meno capaci di valutarne i bisogni emotivi e non, come il bisogno di conforto, la fame, il sonno, o di reagire ai pericoli potenziali.
Il CBD é invece quello che, pur in presenza di modesti effetti collaterali, ha le proprietà analgesiche e antinfiammatorie che lo rendono utile per l’uso medicale. La regina Vittoria lo usava per attenuare i crampi del periodo mestruale due secoli fa, ma oggi il CBD ha una gamma di applicazioni enorme per il trattamento degli effetti collaterali della chemioterapia, ma anche di artrite, diabete, alcolismo, schizofrenia, sclerosi multipla, depressione, epilessia, infezioni resistenti agli antibiotici, non ultima la capacità di contrastare gli effetti psicoattivi del THC.
Un problema da non trascurare per quello che riguarda il CBD é che avere i benefici descritti negli studi scientifici servono da 500 a 1500 microgrammi al giorno, per un costo compreso 30 e 80 dollari al giorno. Troppo per la maggior parte dei pazienti.
Più in generale, la linea di grande cautela del governo canadese é stata messa in discussione da diverse istituzioni scientifiche, sia per quello che riguarda i rischi, sia per quello che riguarda i benefici.
Uno dei punti più critici é da sempre quello del rapporto tra la marijuana e le droghe pesanti.
Per la Gateway Theory, chi fa uso di eroina, cocaina e metamfetamina ha spesso fatto, prima, uso di cannabis. Insomma, la cannabis creerebbe un meccanismo di sensibilizzazione biologica verso l’uso di droghe pesanti. A questa tesi viene obiettato che un ambiente sociale degradato, la prossimità a persone che fanno uso di droghe pesanti e certe malattie mentali hanno di gran lunga una migliore capacità predittiva.

Per i critici della Gateway Theory la marijuana non spingerebbe all’uso di droghe pesanti, ma al contrario ne costituirebbe una utile via di uscita, come sarebbe dimostrato dai dati sui ricoveri in ospedale e sui casi di overdose, che tendono a diminuire dove la cannabis é legale.
In più la cannabis non causerebbe danni alle cellule cerebrali, a differenza dell’alcool. Non ne sarebbe provata la correlazione con la schizofrenia. Darebbe dipendenza, ma meno della nicotina e dell’alcool.
L’accademia nazionale di Scienze, Ingegneria e Medicina degli Stati Uniti ha analizzato 10 mila studi sui benefici della cannabis e ne ha trovato evidenza scientifica solo in 3 casi: il trattamento del dolore cronico, della nausea da chemioterapia e dei sintomi della sclerosi multipla.
Nello stesso studio é stata riscontrata una robusta evidenza scientifica del legame causale tra la cannabis e l’aggravamento dei problemi respiratori, come le bronchiti croniche, il minor peso alla nascita dei neonati, gli incidenti automobilistici e la schizofrenia e altre psicosi.
L’American Medical Association e l’American Cancer Society, negli USA, premono perché la cannabis non sia più equiparata all’eroina e se ne possano indagare liberamente gli effetti, superando le limitazioni che impongono l’uso di derivati sintetici al posto della cannabis naturale, distorcendo i risultati delle ricerche.
Marijuana vs Alcol e Tabacco. Chi é più pericoloso e chi é fuorilegge?
L’80% dei 23 mila studi sugli effetti della cannabis riguardano il suo uso terapeutico, ma come avviene nel caso dell’elettrosmog, i risultati sono contraddittori. Insomma, la “conversazione”, come si dice da queste parti, sui rischi e sui benefici per la salute della marijuana, che dura dagli anni ’60, non é ancora giunta a un punto fermo.
Nonostante questo, però, la marijuana terapeutica é diventata legale nel 2001, quando cioé la Corte Suprema canadese ha obbligato il governo federale a creare un meccanismo che consentisse a un paziente di accedere alla cannabis come componente costitutivo nel trattamento del dolore.
Secondo il Wall Street Journal, nel 2018 solo il 9% degli americani adulti riteneva la marijuana più dannosa di alcool, tabacco e zucchero.
Questo vuol dire che per la stragrande maggioranza degli americani alcool e tabacco, che sono legali, sono più pericolosi della cannabis, che é illegale a livello federale.
Di più: alcool e tabacco, pur essendo legali, uccidono molto più delle droghe illegali. Uno studio di 3 università australiane pubblicato nel 2018 ha stimato, a livello planetario, quanto di più. Risultato: il tabacco (110 morti ogni 100.000 persone) e l’alcool (33 morti) sono killer di gran lunga più spietati delle droghe illegali (7 morti), ma hanno industrie multimiliardarie alle spalle e un grado di accettazione sociale sviluppato nel tempo.
Una piccola prova empirica? Che effetto ci fa la frase “se fossero stati inventati oggi, alcool e tabacco sarebbero sostanze illegali”? Ci sembra una proposta politica sensata alla luce di quello che sostiene la scienza? O una violazione dei diritti fondamentali dell’uomo? O magari una boutade che ci fa venire voglia di un sorso di Brunello e di accendere una Marlboro?
Certo, se bevi in pubblico alle Hawaii, in uno spazio non provvisto di licenza, rischi 6 mesi di galera e mille dollari di multa. Ma a New York te la cavi con 25 dollari. E comunque puoi sempre bere da una bottiglia di birra nascosta in un sacchetto di carta, come da abusato cliché cinematografico. Questo nonostante l’alcol sia un fattore determinante in metà degli incidenti stradali, metà dei reati violenti e mandi all’ospedale più gente degli infarti cardiaci.
Il tabacco ha sicuramente una vita più dura, non tanto per la misura delle sanzioni al singolo (in Canada, per esempio, fino a 10 mila dollari di multa, se fumi in uno spazio pubblico) o per l’estensione dei bandi (tra gli altri, spazi pubblici indoor e outdoor, aerei e aeroporti, ambienti di lavoro, automobili se a bordo c’é un minore), quanto perché i governi, anche al livello locale, hanno chiesto alle società produttrici risarcimenti miliardari per compensare le spese sanitarie legate al consumo di tabacco, e in qualche caso-pilota per i danni subiti fino a 50 anni prima e per i danni futuri.
L’industria del tabacco, quella più letale, da circa un decennio sta cercando di cambiare pelle, progettando un futuro senza fumo, come scrive Philip Morris nel suo bilancio del 2017.
Un bilancio dove viene monitorata – si direbbe con trepidazione – la velocità della transizione da un dispositivo che brucia il tabacco, chiamato sigaretta, ad un dispositivo elettronico che scalda o vaporizza il tabacco, riducendone gli effetti dannosi. Tutta l’industria é già arrivata a spendere un miliardo di dollari all’anno per promuovere il tabacco senza fumo.
Un cambiamento, va detto, che per esempio Philip Morris osserva dall’alto di una montagna di quasi 30 miliardi di dollari di fatturato.
La contraddizione tra la dannosità di alcool e tabacco e il loro status legale si può proiettare su una scala globale: prendete il giro di affari di Big Alcool (100 miliardi di dollari solo in Nord America) e di Big Tobacco (le Top 5, esclusa la Cina dove é un’industria di Stato, hanno fatturato 150 miliardi di dollari nel 2016, con 35 miliardi di utili e 19 miliardi di dividendi distribuiti in Borsa).
Poi confrontateli con i costi sociali diretti e indiretti (costi sanitari, costo delle forze dell’ordine e costo della perdita di produttività) e la riallocazione parziale dei proventi attraverso la tassazione.
Secondo il Center for Disease Control and Prevention, il binge drinking, ovvero il consumo alcolici episodico ma finalizzato a raggiungere lo stato di ebbrezza, costa negli Stati Uniti circa 250 miliardi di dollari all’anno.

Più di 8 volte il totale dei proventi delle tasse sugli alcolici, cumulando il livello federale (circa 10 miliardi di dollari all’anno) e quello locale (circa 16 miliardi).

Lo so, senza binge drinking, si ammoscerebbe la metà delle sceneggiature dei film di Hollywood, da Animal House a Hangover 1, 2 e 3, e non sto dicendo che bisognerebbe ripristinare il proibizionismo.
Dico che una sproporzione persino maggiore c’é per il tabacco: il fisco americano incassa intorno ai 30 miliardi di dollari, cumulando il livello locale e federale, e il sistema-Paese sostiene costi per più di 320 miliardi di dollari: 170 miliardi in spese sanitarie e 156 miliardi in perdita di produttività.
Il Center for Disease Control and Prevention nel 2002 ha calcolato in 7 dollari per pacchetto di sigarette venduto il costo delle spese sanitarie e della perdita di produttività .
I cinici sostengono che comunque sia un buon affare perché il fumo fa risparmiare soldi alla collettività : i fumatori muoiono prematuramente e non utilizzano quanto hanno versato per la pensione.
Quante volte abbiamo sentito questo argomento persino al bar, anzi soprattutto al bar? Beh, Philip Morris non si é accontentata delle chiacchiere da bar e nel 2001 ha avuto la brillante idea di commissionare a Arthur D. Little uno studio nella Repubblica Ceca sui costi-benefici del fumo per il sistema sanitario e pensionistico.
Il risultato della ricerca, non scientifica e immediatamente seguita da una raffica di studi che dimostravano il contrario, era che le tasse sul tabacco e la più ridotta erogazione delle prestazioni pensionistiche per la mortalità prematura dei fumatori superavano le spese sanitarie correlate al fumo e alla diminuzione dell’incasso fiscale causata dal fenomeno.

Una società del tabacco, cioé, che aveva storicamente negato la correlazione tra fumo e mortalità prematura, usava la correlazione tra mortalità prematura e fumo per dimostrare un beneficio per il sistema pensionistico e sanitario. Uno tsunami mediatico ha costretto Philip Morris a scusarsi e a cancellare altri studi analoghi in altri Paesi europei, ma il conflitto tra le due teorie sull’impatto economico del fumo sulla collettività continua.
Ultima digressione: da almeno 70 anni i fumatori fanno causa per risarcimento danni contro l’industria del tabacco, individualmente e collettivamente. Tutto ruota intorno al problema della conoscenza del pericolo: dalla metà degli anni ’50 alla metà degli anni ’80, le aziende del tabacco hanno sempre vinto con tre argomenti. Il primo era quello della cialtronaggine degli avvocati usati dai fumatori che facevano causa, avvocati di serie B che scrivevano nei ricorsi che “20 mila medici hanno falsamente sostenuto che la sigaretta é innocua” e non potevano ovviamente provarlo.
Il secondo era quello che veniva definito “contributo di negligenza”: i fumatori non potevano non sapere che le sigarette fanno male alla salute, visto che esisteva un warning label dal 1965. Questo argomento non poté più essere usato quando fu provato che le aziende produttrici sapevano dei pericoli del fumo già dagli anni ‘30 e ‘40, ma non avevano avvertito il grande pubblico.
Il terzo argomento sosteneva che ci sono migliaia di persone che hanno fumato per tutta la vita senza averne sofferto il minimo danno.
Ad oggi, sono i documenti interni aziendali quelli che si sono rivelati più utili per portare in tribunale l’industria del tabacco. Come quelli in cui si annunciavano i piani per progettare una sigaretta più sicura o come la nota interna di un produttore che nel 1965 riportava, nero su bianco: “siamo nel business della commercializzazione della nicotina, una droga che dà dipendenza ed é efficiente nell’attivare i meccanismi che diminuiscono lo stress”.
Nel ’93 la rete ABC si era spinta oltre, sostenendo che i produttori manipolano i livelli di nicotina in modo da indurre il consumatore a fumare anche se é consapevole della dannosità della sigaretta. La Philip Morris intentò una causa da 10 miliardi di dollari.
Nel tempo le cose sono cambiate: gli avvocati di serie A hanno cominciato a occuparsi di tabacco anche nell’interesse dei fumatori, gli Stati hanno cominciato a chiedere i risarcimenti per le spese mediche correlate al fumo e le aziende produttrici hanno cominciato a firmare transazioni multimiliardarie sotto il controllo degli organi legislativi: dal 1998 le aziende del tabacco americane pagano 10 miliardi di dollari all’anno come contributo per le spese sanitarie legate al fumo.
E stiamo lasciando sigillato il vaso di Pandora delle attività lobbistiche e dei finanziamenti alle campagne elettorali da parte delle aziende manifatturiere.
Il punto é che questo intreccio di caveat, di fake news, di conflitti di interesse fa da sfondo anche al dibattito sulla legalizzazione della marijuana: migliaia di studi con risultati contraddittori, il ricorso al principio di precauzione da parte dei policy makers, ma anche l’opportunismo con cui si cercano i voti degli elettori favorevoli o contrari, la promessa di una nuova corsa all’oro per gli investitori, alimentata dalla competizione nei confronti di tre fra i più importanti settori industriali al mondo, come Big Pharma, Big Tabacco e Food and Beverages.
La cannabis sta effettuando la transizione dal mercato delle droghe illegali a quello delle droghe legali, come tabacco e alcol, in mezzo a questo oceano di contraddizioni.
I media mainstream, l’establishment politico e quello economico-finanziario non possono che vivere il rapporto con l’erba con la stessa ambiguità.
La CBS, per esempio, ha bocciato quest’anno lo spot per il Superbowl di Acreage Holdings, un’azienda di cannabis per uso medico. Una pubblicità che non faceva vedere un fricchettone intento a rollarsi un canna, ma un bambino epilettico e un veterano di guerra.
Bocciare uno spot per un Superbowl, guardato da 100 milioni di americani, significa dire addio a 5 milioni di dollari: una cifra modesta, anzi pari a zero, sapendo che comunque gli investitori pubblicitari fanno la fila fuori dalla porta, ma anche un modo sicuro per rimanere in contatto con l`America profonda.
E poi ci sono i guai che ha passato Elon Musk per aver fumato uno spinello durante una diretta podcast del comico Joe Rogan, facendo perdere alle azioni Tesla l’11%.

L’episodio che lo ha visto protagonista e’ stato reso ancora piu’ gustoso dalla ridda di indiscrezioni e rettifiche dei giorni successivi: la divagazione vale forse il tempo della lettura. Lo spinello, il secondo della sua vita a quanto dice Musk, e un bicchiere di scotch, gli erano stati offerti dal conduttore, noto attivista antiproibizionista.
Il CEO di Tesla, Dr. Elon & Mr. Musk in una allusiva copertina di Wired del 2018, ha pensato bene di affidarsi a un tweet per annunciare in 420 dollari il prezzo, per azione, per ri-privatizzare i titoli Tesla.
Bene, anzi male, 420 essendo un numero magico nella controcultura della cannabis: alle 4.20 di pomeriggio si dava appuntamento nel 1971 un gruppo di 5 teenager di San Rafael, in California, impegnati nella ricerca di una piantagione di marijuana abbandonata, segnata su una mappa del tesoro.
Le ricerche iniziavano, proseguivano e si concludevano con una fumata di gruppo, il che in parte spiega perche’ la piantagione non sia mai stata trovata. Il 20 aprile e’ diventato ovviamente una giornata internazionale di disobbedienza civile, cara agli antiproibizionisti della marijuana, e caratterizzata da un rituale molto semplice: alle 4 e 20 di pomeriggio, si accende la canna.
Anche la Nasa e la Difesa degli Stati Uniti hanno dovuto approfondire il caso per verificare se Elon Musk, che e’ anche il ceo di SpaceX, azienda fornitrice di vettori spaziali, avesse un livello di autorizzazione per l’accesso a informazioni strategiche incompatibile con l’uso della marijuana.
La lezione, ovvia, e’ che se sei il CEO di un’azienda quotata, e’ meglio se le canne te le fai in privato, perche’ se te le fai in pubblico, gli azionisti e i generali non ti perdonano.
Come la marijuana e’ diventata illegale.
Non e’ un segreto che la politica, in America ma non solo, usi la cannabis. Alcune volte fumandola direttamente, e in modo bipartizan, come hanno ammesso di aver fatto 7 presidenti degli Stati Uniti (inclusi i padri della patria, Washington e Jefferson, ma anche Clinton, Bush junior e Obama), oltre a un numero imprecisato di governatori, sindaci e membri del Senato e della Camera dei Rappresentanti, da Arnold Schwarzenegger a Sarah Palin, da Michel Bloomberg a Bill De Blasio, da Al Gore a Bernie Sanders.

Va da se’ che anche quando il politico fa outing, lo faccia in modo inevitabilmente politico e che quindi l’ambiguita’ sia nella natura delle cose: Bill Clinton, maestro di arrampicata sugli specchi in materia di infedelta’ coniugali, piu’ di un quarto di secolo fa, riconobbe di aver fumato, ma di non aver inalato, mentre Barack Obama ha ammesso di aver inalato, ma anche di essere convinto che si sia trattato di un errore di gioventu’ (che dire del cappello che indossa nella foto di cui sopra, peraltro?).
Altre volte la marijuana e’ stata usata come una clava politica.
Per alcuni e’ una leggenda metropolitana, per altri un verita’ storica, al massimo un po’ romanzata, ma una delle ricostruzioni di come la cannabis sia diventata illegale negli Stati Uniti e’ tutta da raccontare, anche perche’ getta una luce sinistra sulla War on drugs che e’ una costante della vita politica americana.
Il Marijuana Act con cui venne messa fuorilegge la cannabis nel 1937 fu scritto da un certo Harry Auslinger, il capo dell’ufficio narcotici dell’FBI. Secondo la teoria complottista, quella legge sarebbe stato il frutto di una congiura che avrebbe coinvolto il tycoon dell’editoria, Randolph Hearst, la famiglia Dupont e il segretario del Tesoro Andrew Mellon.
Tutti erano portatori di interessi economici in conflitto con la coltivazione della canapa che, come detto, e’ una sorta di alter ego della cannabis.
Hearst aveva investimenti nelle aziende di legname che producevano la cellulosa per la carta da giornale, i Dupont avevano appena cominciato a produrre su larga scala una fibra sintetica chiamata nylon, Mellon – ricchissimo investitore a Wall Street, segretario di Stato con 5 presidenti e padrone della Standard Oil, oggi Exxon – ero lo zio della moglie di Auslinger.
Anslinger, l’anima nera del gruppo, utilizzo’ un trucchetto da spin-doctor vecchio come il mondo e fece in modo di inserire nel titolo della legge la parola spagnola marijuana al posto del termine cannabis o canapa indiana, che faceva parte del linguaggio di tutti i giorni.
I suoi commenti incendiari, anche se in un’era pre-social media, fecero il resto: “I fumatori di marijuana negli Stati Uniti sono 100mila, in massima parte negri, ispanici, filippini e musicisti da night. La loro musica satanica – il jazz, lo swing – sono il frutto depravato del consumo di marijuana ”.
Queste nefandezze morali e logiche erano libere di germinare nello stesso terreno che aveva prodotto il proibizionismo, figlio di un puritanesimo rurale che vedeva come il fumo negli occhi la working class immigrata nelle citta’. Il tutto, secondo i complottisti, con il beneplacito del Grande Capitale, interessato a togliere la bottiglia a Italiani, Russi e Polacchi, ma anche a Irlandesi e Tedeschi, per renderli piu’ efficienti nelle fabbriche.

Anche la giovane industria automobilistica e quella petrolifera vengono chiamate in causa in questa trama diabolica. Henry Ford stava testando automobili con carrozzerie fabbricate con la canapa, 10 volte piu’ resistenti dell’acciaio, e alimentate da un biocarburante ricavato dalla canapa. Insomma gia’ negli anni ’30 la canapa era un nuovo business potenziale da 1 miliardo di dollari. E la si poteva coltivare a casa a differenza del petrolio.
Gli storici non hanno trovato evidenze inconfutabili di queste teorie, ma e’ innegabile che negli anni ’20 e ’30, proibizionismo e razzismo andassero a braccetto in Sud Africa e in Giamaica, ancora colonia britannica, paesi in cui una minoranza bianca governava una maggioranza nera e proibiva la marijuana perche’ era un consumo a forte valenza identitaria. In Canada succedeva lo stesso nei confronti degli immigrati asiatici e della loro propensione per l’oppio.
Anche il non-compianto Richard Nixon, che cercava un modo per criminalizzare le minoranze e la sinistra contraria alla guerra in Vietnam, uso’ la cannabis come un manganello politico.
Con l’operazione Intercept, fece virtualmente chiudere il confine col Messico per bloccare l’afflusso di marijuana durante la stagione del raccolto. Promosse una legge che classificava la cannabis alla stessa stregua di eroina ed LSD, creo’ la Drug Enforcement Administration, ma fu anche registrato al telefono mentre sosteneva che i fautori della legalizzazione erano principalmente ebrei. Ma questo era il modus operandi dell’uomo, incapace di controllarsi con la cornetta in mano.
Sulla stessa lunghezza d’onda, piu’ di 40 anni dopo, si e’ trovato l’ex ministro della Giustizia americano, Jeff Sessions, convinto che la marijuana sia pericolosa e che la gente per bene non la fumi.

Di lui si ricorda anche una spiritosissima battuta: “Pensavo che i membri del Klu Klux Klan fossero dei bravi ragazzi, sino a quando ho scoperto che fumano marijuana”.
Trump, che e’ favorevole a che gli Stati sia liberi di decidere in materia di cannabis come caso di applicazione del decimo emendamento, lo ha licenziato poco dopo le elezioni di mid-term e l’industria della cannabis ha potuto tirare un sospiro di sollievo.
Nel 2018, Repubblicani e Democratici erano ancora divisi da 30 punti percentuali (il 43% contro il 73) nella conta dei favorevoli alla legalizzazione, ma la quasi totalita’ dei candidati alle elezioni presidenziali del 2020, repubblicani e democratici, sono pro-marijuana, salvo cambiamenti dell’ultimo minuto.
Uno dei casi piu’ clamorosi di conversione sulla via di Damasco e’ quello dell’ex speaker of the House alla Camera dei Rappresentanti, il repubblicano John Boehner, che dopo essersi dichiarato contrario “senza se e senza ma” alla legalizzazione nel 2011, nel 2018 e’ entrato nel board dei consulenti di Acreage Holdings, azienda che commercializza marijuana in 11 stati.
Durante i 4 anni del suo mandato, quasi mezzo milione di americani e’ stato arrestato per possesso di cannabis, ma la sua opinione sulla materia e’ cambiata. “Bisogna anche pensare a quei 4 milioni di veterani che usano la marijuana per trattare la sindrome da stress post-traumatico”, ha dichiarato senza apparente imbarazzo nel comunicato stampa con cui l’azienda gli dava il benvenuto nel board.
Ai blocchi di partenza.
Ma torniamo ai nostri Canadesi. Nelle intenzioni dichiarate del governo, la liberalizzazione dell’uso ricreativo serviva soprattutto a ridimensionare, se non a eliminare, un mercato nero da 3 miliardi di dollari nel 2017, equivalente a quello della birra e superiore a quello del tabacco. Un mercato consolidato, con una clientela affezionatata e leale, che ha comprato per anni l’erba da un vicino di casa simpatico o da ex-un compagno di classe nel giro giusto.
Il quadro economico di partenza era contenuto nell’istantanea scattata da Statistics Canada nel 2017, prima dell’approvazione del Cannabis Act: quasi 5 milioni di canadesi tra i 15 e i 64 anni avevano speso 5,7 miliardi di dollari in cannabis, tra quella terapeutica legale e quella ricreativa illegale. Circa 1200 dollari a testa. Lo 0,2% del PIL canadese, non poco in tempi di crescita del PIL che si misurano in decimali.
Ecco una guida ragionata ai magnifici e progressivi destini dei Canadesi al tempo della cannabis libera (o quasi) per tutti. A cominciare dalla A di agricoltura.
Cannabis: braccia rubate all’agricoltura.
La coltivazione commerciale della marijuana é un’attività regolamentata, sottoposta a controllo pubblico perché presenta dei rischi intrinsechi per la salute (muffe e parassiti, in primis). Occorre una licenza che si ottiene dopo che i processi produttivi sono stati controllati.
Ma é anche un’attività che ha un forte impatto sul territorio. In vista della legalizzazione dell’uso ricreativo, le aziende si sono trovate a dover aumentare la loro capacità produttiva e nella ricerca spasmodica di spazi per coltivare la pianta, si sono rivolti naturalmente verso i terreni per uso agricolo, meno costosi di quelli destinati a uso industriale.
Non solo: molte aziende agricole si sono riconvertite dalla produzione alimentare a quella della cannabis, privando le comunità locali di risorse alimentari a chilometro zero. In California, per esempio, dove Napa Valley e Sonoma Valley sono zone vinicole di livello mondiale, ci sono 3.000 aziende vinicole e 50.000 fattorie impegnate nella produzione di cannabis.

Il problema é che i grandi produttori di cannabis sono aziende biotech che usano la genomica e fanno confezionamento su larga scala, con processi più di tipo industriale che agricolo, visto che comportano la cementificazione di grandi superfici per costruire le serre e gli impianti tecnologici necessari, dalla illuminazione ai sistemi che devono garantire temperatura e umidità controllata.
Insomma, la rivoluzione verde non é poi così verde, dopo tutto.
ll prezzo della cannabis.
L’arma principale per competere col mercato clandestino si pensava fosse quella del prezzo, a partire da una sua componente fondamentale, cioé la tassazione. I policy makers canadesi fatto i salti mortali per definire tasse contenute per non rendere appetibile il ricorso al mercato nero, ma anche tali da ripagare le risorse da destinare alle forze dell’ordine per l’applicazione delle norme di legge (nelle stime, 100 milioni di dollari all’anno per 5 anni) e quelle da destinare all’educazione del consumatore. Lo schema di tassazione messo a punto dal governo di Ottawa ha finito per tenere separati l’uso ricreativo da quello medico, esentando dalle accise i prodotti con contenuto di THC inferiore al 3% e i prodotti farmaceutici derivati dalla cannabis, a condizione che siano disponibili solo per i pazienti con prescrizione.
Per l’uso ricreativo é stato previsto il prelievo dell’importo più elevato tra un’accisa di 1 dollaro per grammo o il 10 % del prezzo al consumo, con una ripartizione 25% al governo federale, 75% al governo provinciale. Oltre alla normale imposta sul valore aggiunto, che in Canada é compresa tra il 13 e il 15%. Per avere un termine di paragone, l’accise sull’alcol in Canada oscilla tra il 50 e l’80%, mentre il prezzo di una sigaretta é fatto per il 50% da tasse.
I dati diffusi da Statistics Canada nel gennaio 2019 hanno permesso di sfatare una delle previsioni della vigilia, visto che dopo la legalizzazione il prezzo della marijuana in generale non solo non é calato, ma é aumentato del 17%, un successone a confronto del + 80% registrato in California.
É anche aumentata dell’8% la platea dei consumatori, tutte persone che si sono accostate alla cannabis per la prima volta, ricorrendo nel 60% dei casi ai canali legali perché vedevano un valore aggiunto in un prodotto controllato e sicuro.
I consumatori di vecchia data, invece, hanno preferito continuare a rivolgersi al mercato nero, attratti dal prezzo inferiore (3 dollari di differenza al grammo) e tutto sommato soddisfatti dalla qualità del prodotto.
Nonostante tutti gli sforzi, il mercato illegale – per il momento – continua ad essere predominante, visto che é stato ridimensionato solo del 20%.
Cannabis, ma non per tutti.
Un problema invece atteso, ma forse non nella misura in cui si é manifestato, é stato quello della difficoltà di approvvigionamento della materia prima, con il corollario di ore di coda nei punti vendita, scaffali vuoti e in qualche caso la chiusura a tempo indeterminato del negozio e il licenziamento del personale.

Un problema che potrebbe trascinarsi per anni, c’é chi dice fino al 2022, causato in parte dalla competizione col mercato della cannabis per uso medico, con i suoi 300mila utenti registrati, una crescita del 5% su base mensile e un prezzo di vendita più elevato, ciò che spinge i produttori a destinare il prodotto all’esportazione.
I produttori stanno aumentando la superficie delle serre industriali dove la cannabis viene coltivata, ma facendo così aumentano il loro livello di indebitamento e corrono il rischio di creare le premesse per il fenomeno contrario rispetto alla scarsità di prodotto. Come é avvenuto, per esempio, in Colorado, dove i coltivatori – il pecorino sardo insegna – sono stati costretti a distruggere la sovrapproduzione per non dover abbassare i prezzi.
In tutto questo, la distribuzione ha costituito – e continua a costituire – un enorme rompicapo. La legge federale ha delegato alle 13 provincie e territori canadesi il compito di decidere se affidare la vendita della marijuana a soggetti privati, muniti di una licenza, o a punti vendita pubblici, un po’ sul modello di quanto avviene con l’alcool.
Stiamo parlando di negozi che devono registrare in tempo reale vendite, consegne e perdite di merce su un sistema informatico nazionale, gestito dal ministero della Sanità. Con regole rigide per il design, con le vetrine opache e il retrobottega con porte e infissi rinforzati che fanno pensare a un incrocio tra una filiale bancaria e un pornoshop.
Il governo dell’Ontario, la provincia più popolosa del Canada, si era impegnato a non limitare il numero di negozi per la vendita, salvo poi dover fare una brusca retromarcia e ricorrere ad una lotteria per assegnare 25 licenze, a fronte del boom di richieste e dei problemi di approvvigionamento.

In British Columbia, per esempio, la marijuana non si può vendere in un negozio di liquori o in una farmacia. Un po’ come se si decidesse di vendere un biocarburante attraverso una stazione di servizio dedicata, invece che aggiungere un’opzione ai distributori già esistenti. C’é anche una distanza minima tra un negozio di cannabis e uno di liquori, per evitare che un consumatore possa bere una vodka e fumare uno spinello nello stesso posto, cumulandone gli effetti. Insomma, se proprio vuoi, devi prendere il taxi.
Un patchwork normativo indecifrabile, il tutto in un Paese che é tra i più avanzati al mondo nel binomio commercio elettronico-recapito a domicilio e dove la stessa Agenzia garante della privacy consiglia di utilizzare il denaro contante invece della carta di credito negli acquisti di cannabis.
Cannabis senza pubblicità.
Legalizzazione sì, pubblicità no: ecco un altro dei tantissimi paradossi della cannabis legale. C’erano due modelli di riferimento possibili: il tabacco e l’alcol. Il primo, trattato come il nemico pubblico “numero uno”, da bandire “tout court”, o almeno da portare a percentuali di consumo inferiori al 5% entro il 2035. Il secondo, da limitare “ad un consumo responsabile” (una strategia, peraltro, che non sta dando grandi risultati, visto che la percentuale di forti bevitori é cresciuta in Canada dal 15% di fine anni ‘90 al 20% del 2013 ed é stabile da allora).
Il Cannabis Act ha modellato i limiti alla pubblicità su quelli in vigore per il tabacco. Questo vuol dire che sulle confezioni, che non possono avere colori fluorescenti o metallici, sono obbligatorie le informazioni sui pericoli per la salute, e in più che sono vietati i riferimenti ai benefici.
Idem per la pubblicità di marchio che non può evocare uno stile di vita all’insegna del glamour, del divertimento, della vitalità, del rischio o del gusto della sfida, cose invece accettate nella comunicazione sui prodotti alcolici.
La legge dice anche no ai testimonial, alle sponsorizzazioni di eventi o edifici, ai concorsi a premi, con sanzioni che arrivano sino a 5 milioni di dollari di multa e 3 anni di reclusione.
Google, Facebook e Instagram si sono autocensurati da soli e rimuovono in fretta i riferimenti alla cannabis, mentre le aziende produttrici cercano a fatica di aggirare i divieti: c’é anche chi promuove lezioni di yoga dove la cannabis é un lubrificante sociale che si consuma attraverso bong fatti di cioccolato.
Ci sono tabelloni pubblicitari e siti istituzionali che giocano sul fatto che “hi”, ciao, e “high”, sballo, si pronunciano esattamente nello stesso modo.

Canopy, l’azienda leader, usa il marchio “Tweed”, che non é un tessuto ma un richiamo alla parola “weed”, erba, e sostiene di non promuovere direttamente il consumo di cannabis, ma di voler sensibilizzare il consumatore e coinvolgerlo nella “conversazione” sul tema.
Aurora Cannabis Inc., che é la seconda azienda del Paese, sponsorizza concerti con il marchio Aurora, da cui é opportunamente sparito il riferimento alla cannabis.
Quelli che speravano di vedere nel duello Canopy-Aurora una riedizione della lotta Coca Cola-Pepsi, un conflitto che dura da decenni e assorbe miliardi in investimenti pubblicitari, sono rimasti delusi.
Probabilmente cambieranno nel tempo, ma i limiti imposti dalla legge in materia di pubblicità e marketing sono considerati tra le principali cause del lancio deludente della marijuana per uso ricreativo nel Paese.
Posti di lavoro sì, ma che caldo!
Uno degli argomenti forti a favore della legalizzazione era stato quello della creazione di 120 mila nuovi posti di lavoro. Nei fatti, l’industria si é trovata invece a fronteggiare la carenza delle professionalità più sofisticate – esperti di controllo qualità e genetisti – ma anche quella dei lavoratori meno qualificati, alle prese con condizioni di lavoro difficile come quelle di una serra a temperatura e umidità controllata durante la stagione estiva. Clamoroso il caso di Aphria, che nell’agosto del 2018 aveva assunto 50 lavoratori in una delle sue serre industriali. Una settimana dopo, se ne erano dimessi 42.

Con tutte le differenze del caso, qualche secolo dopo l’introduzione dello schiavismo in risposta alle esigenze dell’industria dello zucchero, indispensabile per dolcificare il the giornaliero per milioni di sudditi dell’impero inglese, il problema si ripresenta e alcune aziende si sono dovute rivolgere a paesi dell’area caraibica e del centro america per reperire le risorse umane necessarie.
Inventare il nome della professione di chi vende la cannabis in negozio é stato facile: é bastato fondere la parola “bartender” (barista) e il termine “bud” (germoglio) per arrivare a “budtender”. Più complicato é definirne i percorsi professionali nella giungla di sigle che offrono certificazioni online e di fronte alla complessità della materia. É un sommelier? É un farmacista? Che cosa può dire al cliente, visto che non può parlare dei benefici del prodotto che vende?
Amnistia per molti, ma non per tutti
La legalizzazione della cannabis ricreativa ha posto anche un problema di equità sostanziale: come trattare i 500 mila canadesi che – per aver fatto uso di marijuana o averla spacciata – erano in prigione o in attesa di un processo, avevano la fedina penale sporca e difficoltà di accesso a un lavoro o a un mutuo?
La scelta del governo é stata altamente divisiva: no alla cancellazione automatica del reato, come era invece avvenuto nel 1969 quando finalmente l’omosessualità aveva smesso di essere considerata un crimine. Sì ad una procedura che consente a chi era stato colto con meno di 30 grammi di erba prima della legalizzazione, di ottenere la cancellazione del reato dalla propria fedina penale, dopo un’attesa di 5 anni e dietro il pagamento di 600 dollari. Anche questa norma verrà probabilmente rivista, ma la liberalizzazione non ha certo comportato un colpo di spugna sul passato.
Un problema analogo di equità sostanziale tocca le dinamiche interne della famiglia: vietare ai minori la cannabis (con giusta ragione, vista la loro maggiore vulnerabilità psicofisica) significa che, se viene colto a usarla, il minore rischia le manette, qualche ora di permanenza alla stazione di polizia o addirittura un processo, mentre in famiglia si trova con genitori che non fanno mistero di aver fatto uso della cannabis quando era illegale o di farne uso attualmente per ragioni mediche o ricreative.

Ma non ci sono solo le imprese e i consumatori di cannabis. Ci sono i problemi che investono la società civile nel suo complesso, e non stiamo parlando solo dell’aumento del 900% dei ricoveri nei pronto soccorsi veterinari di cani e gatti con i sintomi inequivocabili dello sballo. I cani, in particolare, sono 10 volte più sensibili agli effetti del THC degli umani e con i loro 300 milioni di recettori olfattivi possono trovare un biscotto alla cannabis al buio.
Cannabis e ambiente di lavoro.
La legalizzazione della cannabis ha costretto a rivedere le norme su ambienti e processi lavorativi. Gli esempi sono innumerevoli, alcuni francamente curiosi: l’esercito canadese, per esempio, ha speso 170 mila dollari per dotarsi di visori per simulare in modo realistico gli effetti della cannabis e addestrare conseguentemente il personale militare operativo.

Più in generale, il datore di lavoro può vietare l’uso ricreativo della marijuana negli ambienti di lavoro, a maggior ragione se l’attività lavorativa implica l’uso di macchinari. Però deve predisporre spazi e tempi per il lavoratore che fa un uso terapeutico della cannabis.
Marijuana al volante, pericolo costante?
Secondo un sondaggio del 2015 della compagnia assicurativa State Farm Insurance, il 44% degli intervistati non riteneva che la marijuana compromettesse la capacità di guidare, ma che anzi favorisse la concentrazione.
Il che probabilmente é parte del problema se il guidatore si concentra, per esempio, sul contachilometri o sul paraurti della macchina davanti, ma non guarda un cartello stradale o un pedone che attraversa sulle zebre.
E poi per quanto tempo precludere la possibilità di mettersi al volante? Gli esperti suggeriscono da due a 4 ore a seconda della concentrazione di THC. E qui salta fuori un altro problema: la legge sanziona fino a mille dollari di multa una concentrazione di THC compresa tra 2 e 5 nanogrammi per millilitro di sangue e punisce con la reclusione fino a 10 anni la recidiva.
I test usati dalla polizia stradale si basano su un prelievo di saliva, ma non sono affidabili al 100% e non hanno valore legale a differenza dei test ematici, che si possono fare solo se non si e` superato il primo test e solo alla stazione di polizia, quando i livelli di THC si sono probabilmente ridotti di molto.
Ma al di là di cosa pensano gli automobilisti, le statistiche dicono anche un’altra cosa: l’Insurance Institute for Highway Safety ha previsto un aumento del 3% del numero di incidenti stradali, con 200 morti in più all’anno.
Cannabis a domicilio.
Ugualmente complicato il rapporto tra cannabis e proprietà immobiliare, e questo anche da prima della liberalizzazione.
Un caso classico era quello di un appartamento di ampia metratura, affittato attraverso un agente immobiliare compiacente, e riconvertito a serra per coltivare le piante, con il corollario di finestre oscurate di giorno, aromi inconfondibili e consumi elettrici alle stelle che, dopo mesi, permettevano di individuare le attività illegali di coltivazione indoor.
BC Hydro, fornitore di energia elettrica in British Columbia, é arrivata a contare 40 mila casi di questo tipo. Senza trascurare l’aumento vertiginoso del numero di incendi causati da impianti elettrici riconfigurati per la coltivazione, ma intrinsecamente pericolosi.
Tutto questo ha finito per innescare una vera e propria guerra legale tra padroni di casa e affittuari, con i primi colpiti dal deprezzamento dell’unità immobiliare, dall’aumento dei costi di assicurazione o dall’esclusione della copertura e dai pesanti costi di bonifica: 50-100 mila dollari per rimediare ai danni prodotti dall’umidità, che fa tanto bene alle pianticelle, ma non a muri e infissi.
In alcune Province, i proprietari immobiliari sono riusciti a farsi riconoscere il diritto di condizionare il contratto di locazione all’impegno del locatario di non coltivare cannabis nella casa presa in affitto.
I problemi non sono finiti con la legalizzazione: ora la legge permette di coltivare 4 piante, vincolando il coltivatore alla discrezione (niente finestre o zone del giardino con vista dalla strada).
Coltivate a regola d’arte, producono circa 5 chili di cannabis all’anno, valore sul mercato di circa 1000 dollari al chilo. Questo vuole dire che adesso in giardino hai un controvalore di 5 mila dollari in marijuana, con cui ti sei guadagnato l’attenzione di un vicino che ama rilassarsi la sera fumando erba (e sa che la tua é più verde) o che ha guardato tutte le puntate di Breaking Bad e sta cercando risorse per pagare il college al figlio.

Se pensi di tagliare la testa al toro vendendo il prezioso raccolto, stai facendo un errore ancora maggiore, perché senza una licenza di vendita, rischi fino a 5000 dollari di multa e 14 anni di prigione. Insomma, se organizzi una festa, la cannabis agli amici la puoi fornire solo gratis.
Follow the money.
Nei tre anni che hanno preceduto la legalizzazione in Canada i mercati hanno vissuto momenti di grande euforia, innescati dalle prospettive di aziende nate per offrire la marijuana per uso medico e che ora si preparavano a lanciarsi sul mercato dell’erba per uso ricreativo.
E questo era vero soprattutto per le aziende canadesi, di maggiori dimensioni rispetto a quelle americane, penalizzate dalla mancanza di una legge federale e dalle conseguenti difficoltà ad accedere al credito bancario.
Tilray, la prima a quotarsi al Nasdaq, era salita del 30% dopo l’ok del governo americano all’importazione di cannabis per la ricerca medica. Canopy Growth, Cronos e Aurora non erano da meno, con rally borsistici tra l’80 e il 130%.
Nell’agosto del 2018, due mesi prima dell’entrata in vigore del Cannabis Act, la capitalizzazione di Canopy (11,5 miliardi di dollari) era volata più in alto di quella dei grossi nomi dell’industria aeronautica canadese, come Bombardier (11,4 miliardi), Air Canada (7,2 miliardi) e WestJet (2,1 miliardi).
Per il Bloomberg Intelligence Global Cannabis Competitive Peers Index, per tutto il 2017 la marijuana ha fatto meglio di oro, Bitcoin e dello S&P 500.
Un’euforia giustificata se si guarda ai numeri del mercato americano dei sonniferi (102 miliardi di dollari all’anno), degli antidolorifici (77 miliardi di dollari), dei farmaci per il trattamento dell’epilessia (10 miliardi) o del morbo di Chron (8 miliardi), per la cannabis tutte riserve di caccia da contendere a Big Pharma.
Anche i 150 miliardi di dollari che il brontosauro Big Tobacco fattura in Nord America potevano essere guardati con interesse dal velociraptor Cannabis: un’industria dai proventi enormi, ma che in molti considerano un morto che cammina, con consumi in calo da decenni e che, come detto, sta cercando di reinventarsi con i vaporizzatori.
Se é un meccanismo per alleviare lo stress quello che cerca un fumatore di tabacco, beh la marijuana ha da offrire molto di più – era il ragionamento – e in più con un minor rischio di dipendenza.
Di più: cosa succede, si chiedevano gli investitori, se un’azienda come la Coca Cola, che vale in Borsa quasi 200 miliardi di dollari, decide di reinventare i soft-drink? Perché non replicare il successo strepitoso, da tre decenni a questa parte, degli energy drink, un mercato da 12 miliardi di dollari solo negli Stati Uniti, dove marchi come la californiana Monster (32 miliardi di capitalizzazione) e l’austriaca Red Bull hanno dimostrato cosa si può fare aggiungendo una droga legale come la caffeina a una bevanda gassata.

E cosa succede se la Wrigley, che fattura 6 miliardi di dollari all’anno con le gomme da masticare, fa una cosa ovvia come quella di produrre chewing gum alla cannabis?
Che dire del mercato globale da 1500 miliardi di dollari delle bevande alcoliche? O dei 120 miliardi di dollari che americani e canadesi spendono in birra ogni anno? Quanta parte di questo mercato é contendibile da prodotti che abbiano la cannabis tra gli ingredienti?
Un brusco risveglio.
Il risveglio da questo sogno a occhi aperti é stato brusco. Ancora prima del lancio della marijuana ricreativa, molte delle aziende avevano dimezzato la loro capitalizzazione di Borsa. La concorrenza del mercato illegale, i problemi di approvvigionamento, i colli di bottiglia nel rilascio delle licenze, il cappio normativo alla commercializzazione e alla pubblicità di prodotto hanno fatto inciampare la marcia, che si immaginava travolgente, delle aziende e reso più tiepidi i consumatori.
Gli analisti di Brightfield hanno rivisto al ribasso, da 8 a 5 miliardi di dollari le previsioni sul mercato canadese al 2021: si sono basati sui 200 milioni di dollari di vendite totali registrate tra ottobre e fine anno, un dato che continua a fare a pugni con i 43 miliardi di dollari di capitalizzazione delle prime dieci aziende canadesi, otto volte le previsioni di fatturato a tutto il 2021.
La prossima fase nell’apertura del mercato é rappresentato dalla legislazione, attesa per ottobre, che dovrà disciplinare gli edibles, i prodotti commestibili preconfezionati, dai prodotti da forno, ai dolciumi e ai gelati, per arrivare alle bevande contenenti cannabis. Per Deloitte 6 consumatori su 10 prediligeranno questo tipo di formato, meno invasivo del fumo, ma che accentua i problemi di tutela dei minorenni, complicando il riconoscimento dei prodotti.
Le regole allo studio (limite di 10 milligrammi di THC per porzione, da confezionare singolarmente, niente indicazione di ingredienti che possano essere di appeal per un minore, niente refrigerazione) hanno fatto dire agli esasperati produttori “ci vogliono far vendere della sabbia”. Sarà interessante vedere quale regolamentazione verrà applicata, ma che gli edibles possano dare una spinta forte allo sviluppo del mercato sembra tutto da dimostrare, anche se le aziende di cannabis stanno comprando o stipulando accordi di esclusiva con i produttori locali di cioccolato artigianale.
Il Wall Street Journal ci ha messo del suo nei giorni scorsi: secondo gli esperti intervistati, le bevande alla cannabis profumano come “l’aia di una fattoria e sanno di urina, con un tocco di detersivo per le stoviglie”.
Niente di cui stupirsi: i composti della cannabis in forma naturale sono olii, che non si mescolano molto bene con l’acqua, come da antico adagio nella cultura popolare.
Sarà anche per questo che Canopy Growth sta lavorando da 4 anni con Trait Biosciences, sinora senza successo, a una bevanda alla cannabis, chiara, blandamente intossicante, che faccia effetto entro 12 minuti dall’assunzione.
Il futuro della cannabis.
Ci sono un bel po’ di variabili in gioco. Big Ganja e’ chiamata a chiarire come intende usare acqua, energia e territorio nei suoi processi industriali.
E poi non e’ ancora stato risolto l’enigma di che cosa farà da traino per l’industria.
La cannabis per uso medico, con le sue decine di applicazioni possibili, incluso il sostegno farmacologico durante il fine vita, ha logiche divergenti rispetto a quelle della cannabis per uso ricreativo, visto che lo sballo é l’ultima cosa che interessa chi usa la marijuana contro il dolore cronico, per poter “funzionare” nella vita quotidiana, andare al lavoro, occuparsi della famiglia.

In molti continuano a temere che l’uso ricreativo possa mettare in crisi il sistema messo a punto per l’uso terapeutico, incentrato su un medico che prescrive, un farmacista che consegna il prodotto e un paziente che si deve registrare per accedere al prodotto.
Resta, come detto, un problema di sostenibilità economica, visto che per avere i benefici descritti negli studi scientifici servono da 500 a 1500 microgrammi di CBD al giorno, per un costo compreso 30 e 80 dollari. Troppo per la maggior parte dei pazienti.
Chi punta sull’uso ricreativo come forza trainante, deve fare i conti con l’attuale sistema di regole, rigide al punto da far pensare che il Cannabis Act non abbia portatato a una vera liberalizzazione, ma a un proibizionismo 2.0.