Ho dato un’occhiata online ai materiali, vecchi di 150 anni, dell’archivio storico canadese in materia di immigrazione e li ho confrontati con i titoli dei giornali italiani delle scorse settimane sullo stesso tema. Poi, come tutti, sono stato colpito alla bocca dello stomaco dalla foto di Aylan Kurdi, a faccia in giù nella sabbia, sulla spiaggia di Bodrum.
Colpito due volte allo stomaco dalla sua vicenda, dal fatto che la zia a Vancouver avesse pagato il viaggio della speranza dopo che la famiglia di Aylan era rimasta intrappolata in un paradosso burocratico in un puro stile Comma 22: dallo scoppio della crisi siriana, nell’ottobre del 2010, la legge canadese richiede che la “sponsorizzazione” di una famiglia siriana debba essere sottoscritta da almeno 5 adulti con cittadinanza canadese.
Quelli si trovano, perchè i canadesi hanno il cuore d’oro. Il problema è che l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati ha stabilito che la documentazione dello status di rifugiato può essere rilasciata solo nella misura in cui la famiglia sia stata accettata in Canada, mentre il Canada può accettare la famiglia di profughi solo dopo che ne sia stato certificato lo status dall’Agenzia dell’ONU.
Qualche decennio fa, però, per il Canada era più importante “fare la cosa giusta” piuttosto che “farla nel modo giusto”, e così furono salvati 60mila vietamiti in due anni, 5000 kosovari, 5000 ugandesi, mentre solo 2500 profughi dalla Siria solo stati accolti dal gennaio 2010. Nel caso dei Boat People si mandavano centinaia di voli charter a prendere i disperati, approdati miracolosamente in qualche isola del sudest asiatico, un team di 25 persone esaminava in loco le richieste di asilo (12 minuti il tempo medio, mentre ora i burocrati, nell’era di Internet, si prendono da due a tre mesi) e si favoriva l’immigrazione della famiglia estesa: una nonna, un fratello in più miglioravano di molto le speranze di integrazione della famiglia che veniva accolta.
Il confronto stordisce: il Canada di 150 anni fa è un mondo alla rovescia dove l’immigrazione non è un costo, un problema di ordine pubblico o una minaccia all’identità nazionale, ma al contrario è il fondamento dello Stato Federale, la sua condizione necessaria e indispensabile, da incentivare ad ogni costo anche perchè costituisce uno strumento di competizione internazionale.
Un mondo, e un tempo, in cui la “supply chain” degli immigrati come persone fisiche è istituzionale, e non clandestina: c’è un governo che fa delle scelte politiche, ci sono agenti governativi reclutatori (spesso in incognita, perchè agiscono in violazione delle norme che limitano l’emigrazione dai Paesi “esportatori”), ci sono compagnie di navigazione e ferroviarie che appaltano la logistica, ci sono campagne di comunicazione pubblica e sondaggi d’opinione.
Ovvio, il paragone tra una penisola sovrappopolata e in recessione economica al centro del Mediterraneo, come l’Italia, e una nazione-continente come il Canada, con una densità media desertica e una economia basata sull’esportazione di materie prime, non è proponibile, ma il linguaggio dei politici, l’atteggiamento dell’opinione pubblica, le ricette economiche dell’epoca colpiscono per la loro distanza siderale dalla realtà di oggi, non solo in Italia, ma anche in Canada.
Si può obiettare che di “immigrazione” non si sia trattato, ma più esattamente di “autocolonizzazione”, e quindi di un processo storico irripetibile. L’obiezione regge soprattutto per la fase iniziale, basata sull’incorporamento della componente anglofona, ma l’ondata nordeuropea e slava e quella più recente, indiana e cinese, sono senza dubbio flussi migratori.
Ci sono state pagine nere, come la repressione delle rivolte indiane che agli immigrati hanno dovuto cedere il loro spazio vitale, o come l’internamento degli immigrati tedeschi e austro-ungarici durante la Prima Guerra Mondiale, ma quella forma mentale di accettazione, di inclusione, di apertura allo straniero è rimasta ancora oggi e costituisce l’anima del Canada. Già nel mito fondativo del Paese, fin da quando John A. Macdonald, il Cavour canadese, diventò il primo capo di governo della nazione, l’immigrazione e la costruzione della ferrovia sono stati i due principali catalizzatori storici.
Solo due anni dopo la nascita del Canada, nel 1867, la Hudson’s Bay Company, la Apple dell’epoca, trasferì i suoi territori del nordovest al governo federale. Chi ha letto i fumetti di Blek Macigno sa che Hudson’s Bay era l’entità economica che per secoli aveva controllato il commercio delle pelli tra il Nord America e l’Europa, arrivando a detenere il 15% della superficie del continente. Esiste ancore oggi, ma si è trasformata in una specie di Rinascente, dove puoi comprare il servizio per il tè o i mobili da giardino.
Il nordovest e le immense praterie interne erano, dunque, un grande vuoto da riempire, con la coltivazione del grano e l’allevamento bovino, certo, ma soprattutto con gli insediamenti umani, e si doveva fare in fretta, per evitare che gli americani facessero col Canada quello che avevano fatto col Messico, annettendo il Texas dopo averlo popolato di coloni. Con buona pace di Donald Trump, allora erano i messicani a cercare di arginare con un sistema di fortificazioni l’afflusso di coloni “yankee” in Texas.
Per portare gli immigrati dall’Europa ci volevano le navi e il primo ministro si legò a filo doppio a Hugh Allan, che aveva una compagnia di navigazione.
Allan spese in pubblicità, nel ventennio successivo, più del governo federale per portare gli immigrati europei in Canada. McDonald pensò bene di coinvolgerlo per dare vita un consorzio con l’obiettivo di costruire la Canadian Pacific Railway, ottenendo in cambio un robusto contributo elettorale. La cosa divenne di pubblico dominio, il primo ministro fu travolto dallo scandalo e rimase per un quinquennio fuori dalla stanza dei bottoni. Salvo poi tornare al potere (anche in Canada l’opinione pubblica ha la memoria corta) e portare a termine la costruzione della ferrovia prima della fine del secolo.
L’economia tirava, le navi e i treni a vapore portavano rapidamente gli immigrati dall’Europa, le nuove macchine agricole aravano il duro terreno delle praterie e il governo poteva permettersi di pagare un bonus di 10 dollari per ogni agricoltore che si fosse stabilito in un appezzamento gratuito di 160 acri entro 6 mesi dalla partenza dalla Gran Bretagna. Cinque dollari erano previsti per le vedove e i maggiori di 12 anni di età.
Nel 1896, diventò primo ministro il liberale Wilfred Laurier. La visione strategica non cambiò: il diciannovesimo secolo sarebbe stato il secolo canadese come il diciottesimo era stato il secolo americano e lo strumento principale per raggiungere questo obiettivo sarebbe stata l’immigrazione.
“Non mi importa quale lingua un uomo parli, o quale religione professi – ebbe a dire – ma se è onesto e rispetta la legge, se prenderà possesso di quella terra e ne farà una fonte di sostentamento per sè e la sua famiglia, sarà un immigrato desiderabile per il Canada. E noi canadesi non riusciremo a popolare il Manitoba e il Nordovest se non metteremo in pratica questo principio. Se riusciamo a trovare gente che voglia obbedire alla legge e pagare le tasse per supportare le nostre istituzioni, dobbiamo aprire loro le nostre porte e incoraggiarli per aiutarli a superare le difficoltà del primo inserimento”.
Il suo ministro degli Interni, Clifford Sifton, responsabile per l’immigrazione e la colonizzazione, era un avvocato, un uomo d’affari, uno speculatore immobiliare ed un editore di “free press”. Un conflitto d’interessi ambulante, ma capiva la potenza della pubblicità e intensificò la campagna di comunicazione per vendere il prodotto Canada ai suoi diversi target di riferimento, principamente le colf e gli agricoltori con esperienza, macchinari e capitali dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, oltre ai braccianti dall’Europa centro-orientale.
Sifton era convinto che i popoli settentrionali fossero più adatti all’agricoltura: e quindi Scozzesi, Scandinavi, Tedeschi e Inglesi erano perfetti, gli Slavi del Nord (Ucraini, Polacchi) andavano bene, mentre Ebrei e Italiani, come dire, non erano altrettanto benvenuti. Nel frattempo l’Inghilterra si stava trasformando in una società urbanizzata e industriale, dove il reclutamento di agricoltori diventava sempre più difficile.
Per attrarre gli immigrati venne messa a punto una gigantesca campagna di comunicazione, che non trascurò (quasi) nessuno degli strumenti disponibili all’epoca: manifesti, opuscoli pubblicitari, fiere, road show, ma anche promozioni, gadget e sondaggi d’opinione.
Fu inventato uno slogan, con l’obiettivo di contrastare la cattiva immagine internazionale che avevano le grandi praterie del Canada: ”The last best west”. Si trattava chiaramente di pubblicità comparativa, perchè stabiliva un confronto con gli Stati Uniti, dove c`erano ancora diversi territori disponibili, anche se i migliori erano già stati venduti e il Far West era stato dichiarato “chiuso” nel 1890.
Vero è che le praterie canadesi, per quanto più fredde, erano e sono più fertili del Dakota e del Wyoming, e meno selvagge perchè le Giubbe Rosse garantivano la legge e l`ordine.
Il problema del clima si risolveva con un po’ di cosmesi linguistica: la parola “freddo” era bandita dai materiali pubblicitari, la parola “neve” non compariva, mentre andavano forte gli aggettivi “tonificante” e “corroborante”. Il presidente della Canadian Pacific Railway, William Van Horne, ebbe a lamentarsi, durante un viaggio in Europa, del freddo patito a Firenze e a Roma, e affermò di rimpiangere il clima di Winnipeg (che i Canadesi stessi chiamano simpaticamente Winterpeg), sostenendo – senza che nessuno invocasse un test antidoping, o almeno l’etilometro – che “l’atmosfera del Far West era incredibilmente rinvigorente”. Se si parlava di neve, era per dire che si trattava di un fenomeno transitorio, che nelle praterie nevicava meno che sulla costa orientale e che, dato il clima secco, la neve stessa aveva una consistenza polverosa e si eliminava dal cappotto con un gesto di noncuranza. Gesto che, se ci fate caso, è rimasto nella iconografia classica di rapper e spacciatori di cocaina e⁄o forfora.
La bianca coltre proteggeva i campi seminati dal freddo più intenso e agevolava il trasporto del raccolto ai mercati. La ciliegina sulla torta era la promessa di feste a tema durante la luna piena, ovviamente a bordo di slitte dotate di campanelle.
Con la stessa logica censoria, il dipartimento Immigrazione si rifiutò per anni di usare il cinema a scopi educativi, privilegiando i proiettori di diapositive, che all’epoca si chiamavano lanterne magiche.
Le riprese delle condizioni climatiche estreme dell’inverno canadese erano infatti popolari nella nascente industria cinematografica, e questo con grande scorno del governo di Ottawa, comprensibilmente scettico sull’appeal che l’immagine del Canada come Terra del ghiaccio e della neve poteva esercitare sui potenziali emigranti.
La propaganda per la nuova Terra Promessa non si faceva mancare nulla e così i 65 mila opuscoli distribuiti nel 1896, erano diventati un milione al giro di boa del secolo. Nel 1905, pubblicità per reclutare immigrati comparvero su 1700 quotidiani e periodici americani.
In quegli anni venne creato lo stereotipo che avrebbe dominato le immagini pubblicitarie per i successive trenta: campi di grano dorato sotto un cielo blu. I coltivatori sembravano ovviamente dei modelli da copertina: alti, gli stivali ai piedi e uno Stetson in testa, la camicia aperta sul petto. In un sondaggio d’opinione in cui si chiedeva cosa le donne pensassero del Nordovest canadese, alla domanda “si sente minacciata dagli Indiani”, la maggior parte del campione aveva risposto: “no, per niente”. Probabilmente il campione femminile si ritrovava appieno nell’identikit politicamente scorretto che dell’immigrato ideale aveva tracciato l’ineffabile Sifton: “gente robusta, col cappotto di pelle di pecora, contadini da 10 generazioni, con una moglie altrettanto robusta e una mezza dozzina di figli”.
Di immigrati ne servivano non meno di 14 mila per costruire la ferrovia e almeno 100 mila per dissodare le praterie: ne arrivarono a centinaia di migliaia. Nel primo decennio del secolo, un milione di immigranti arrivarono in Canada dall’Europa, per più di metà erano inglesi.
Il governo di Sua Maestà voleva ridurre la pressione demografica nella madrepatria e quindi assecondò in ogni modo gli sforzi del governo canadese, anche se manteneva un diritto di approvazione preventiva del materiale pubblicitario.
Il successore di Sifton, Frank Oliver, conservatore, ne rovesciò l’impostazione, privilegiando le origini etniche e culturali rispetto alle competenze agricole: “l’obiettivo di popolare di immigrati il nordovest non riguarda solo la possibilità di fornire un mercato ai produttori e ai commercianti dell’est, o di riempire il Paese di gente che coltiva grano e compra i beni prodotti. La questione fondamentale – ebbe a dire – è quella di costruire l’identità nazionale canadese in modo che i nostri figli possano dar vita ad una delle grandi nazioni civilizzate del mondo ed essere una delle forze più incisive in questo processo”. Per opposte ragioni, le porte restavano aperte.
Negli anni venti, i timori per un aumentato radicalismo laburistico tra gli immigrati, ispirato alla rivoluzione bolscevica, spinsero i Canadesi a rifocalizzarsi su America e Inghilterra. Il liberale Mackenzie, per dieci anni primo ministro, fu però costretto a rivedere le sue politiche per le pressioni delle compagnie ferroviarie, che avevano vaste estensioni di terra da vendere e vedevano nei coloni europei potenziali compratori irrinunciabili anche se in odore di socialismo. Le compagnie ferroviarie poterono così reclutare direttamente in Europa, a condizione che gli immigrati passassero un esame medico, fatto da personale canadese, prima di lasciare l’Europa e a condizione di assumere la responsabilità economica dell’inserimento in caso di insuccesso. La Grande Depressione mise la parola fine a questo esperimento e il Canada riaprì le porte all’immigrazione solo alla fine della Seconda Guerra mondiale.
Il Paese è oggi un patchwork di 34 diversi gruppi etnici con almeno 100 mila individui (10 di questi gruppi superano il milione di unità), un Paese dove 7 milioni di abitanti sui 35 milioni complessivi sono nati fuori dai confini federali e che negli ultimi 10 anni ha accolto 250 mila immigrati all’anno.
Ancora nel 1991, l’Economic Council for Canada, organo consultivo del governo federale canadese, suggeriva di dare impulso ulteriore all’immigrazione per portare la popolazione ad almeno 100 milioni di abitanti, mentre uno studio della Royal Bank of Canada nel 2005 proponeva di aumentare del 30% il tasso di immigrazione sino a 400 mila unità all’anno per sostenere la crescita economica.
Da qualche tempo, però, si stanno levando anche voci critiche sull’incremento dei flussi migratori, come quella del Fraser Institute, “think-tank” conservatore, secondo cui le tasse pagate dagli immigrati arrivati in Canada tra il 1987 e il 2004, sarebbero pari al 57% delle tasse pagate in media dai cittadini Canadesi, con il risultato di creare un disavanzo di 23 miliardi di dollari all’anno tra quanto il Governo investe per gli immigrati e quanto gli immigrati pagano in tasse al governo. Per un altro centro studi conservatore, l’Howe Institute, l’afflusso di immigrati determinerebbe un innalzamento, e non un abbassamento dell’età media delle popolazione, attraverso il meccanismo del ricongiungimento famigliare.
Persino un mito pop come l’ambientalista David Suzuki si è pubblicamente espresso contro l’immigrazione (ma non contro gli immigrati, ha voluto precisare), perchè aumenta in modo insostenibile la pressione demografica sul territorio del Paese di immigrazione e priva del loro futuro i paesi del sud del mondo, perchè mandano all’estero le loro risorse professionali qualificate. Gli è stato obiettato che nel giro di un paio di generazioni gli immigrati adeguano il loro tasso di fertilita a quello del paese ospitante, e che se fossero rimasti nel paese d’origine, il loro impatto demografico sarebbe stato maggiore. Anche il drenaggio delle risporse professionali qualificate sarebbe comunque minimo e si risolverebbe in un vantaggio per il paese di origine: il 10% del PIL delle FIlippine, per esempio, è costituito dale rimesse degli emigrati.
In ogni caso il baricentro del sistema dall’immigrazione è diventato quello della ricerca dei lavoratori qualificati, ma per chi critica il sistema, questo ha finito per abbassare la retribuzione di mercato per i lavori che richiedono la laurea e innalzare quella per I lavoratori meno qualificati. Solo il 60% degli immigrati che entrano in Canada come lavoratori qualificati trova poi un’occupazione effettivamente qualificata: il fenomeno dei tassisti laureati in medicina é riscontrabile anche nel Paese della Foglia d’Acero.
Insomma, l’equazione “benessere dell’immigrato qualificato = sviluppo dell’economia” che costituiva la premessa del sistema sembra essere venuta meno: l’80% degli immigrati tra il 2000 e il 2007 aveva almeno la laurea (contro la media del 25% dei cittadini nati in Canada), ma il loro tasso di disoccupazione nei primi 5 anni dall’ingresso nel Paese è cinque volte maggiore di quello dei laureati nati in Canada (15% contro il 3,5%) e il loro reddito è pari al 67% degli omologhi “born in Canada”, con uno squilibrio quantificato tra i 2 e i 3 miliardi di dollari all’anno.
La verità è che anche in Canada non ci sono più gli spazi vuoti della sua infanzia di Nazione in via di formazione: il 75% dei canadesi vive entro 160 chilometri dal confine con gli Usa e i nuovi arrivati tendono a concentrarsi nelle grandi città come Toronto, Montreal e Vancouver, determinando un sovraccarico della domanda di servizi che mette a dura prova le infrastrutture cittadine.
Anche per questo i Conservatori al governo hanno introdotto nel 2014 un nuovo sistema di immigrazione basato sulla “manifestazione di interesse”: i richiedenti vengono inseriti in una graduatoria che tiene conto del livello di istruzione, delle esperienze lavorative, della conoscenza della lingua. Imprese, governo federale e Province possono attingere da questa graduatoria.
Questo per accelerare la tempistica della procedura d’immigrazione e consentire all’immigrato di avere un lavoro compatibile con la propria istruzione ed esperienza professionale già all’arrivo. Si è puntato anche su un maggiore ricorso ai permessi di lavoro temporanei (che non danno la residenza a tempo indeterminato), sull’azzeramento delle liste di attesa e sulla riduzione programmata della quota di immigrazione legata ai ricongiungimenti famigliari.
L’opinione pubblica più liberal e i nuovi canadesi contestano questo orientamento perché, facendo leva sulla conoscenza dell’inglese, tende a penalizzare l’immigrazione da paesi emergenti come Cina, Russia, India e Brasile rispetto a quella proveniente da Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia.
Contestano l’azzeramento delle liste d’attesa, perché antepone l’efficienza all’equità, e il ruolo dei datori di lavoro nella scelta degli immigrati da ammettere nel paese, perché privilegia le logiche da selezione del personale su quelle della costruzione di una comunità nazionale.
I “super visti di lavoro” al posto delle residenza a tempo indeterminato e la limitazione dei casi di ricongiungimento famigliare (oggi sono il 25% delle immigrazioni complessive, mentre il 62% ha una motivazione economica e il 13% riguarda i rifugiati politici) fa prevalere la transitorietà sull’inclusione e, di fatto, induce gli imprenditori a preferire i lavoratori stranieri temporanei ai canadesi, grazie ai salari più bassi.
In meno di 10 anni, il governo conservatore di Harper é riuscito a demolire la reputazione internazionale del Canada, ha sostenuto in questi giorni il predecessore, il liberale Jean Cretien, ricordando la tradizionale politica di indipendenza del Canada, capace di inventare una soluzione pacifica per la crisi di Suez, di aprire alla Cina con anni di anticipo rispetto all’America di Nixon, di ignorare l’embargo americano a Cuba. Le elezioni di ottobre serviranno a stabilire anche questo: se il Canada sia ancora una superpotenza morale.