Lezioni di Dolce Vita 2

Capisci a me, ma ogni volta che ceselliamo un pronome combinato (alzi la mano chi ne sospettava l’esistenza senza essere un professore di Italiano pre-Sessantotto, attualmente impegnato a dare il pane secco ai piccioni ai giardinetti), ogni volta, dicevo, scriviamo un trattato di logica.

Un’azione, il soggetto cui quell’azione e’ diretta, l’oggetto di quell’azione. Una sintesi hegeliana governata da un imperativo.

Ora affidate, trepidanti, questo miracolo del pensiero mediterraneo a un Italianofilo della British Columbia, categoria “beginner superleggero” .

Sedetevi di piu’, in voi stessi, e contemplate al rallentatore il meraviglioso tamponamento a catena mentre si snoda davanti ai vostri occhi. Un veicolo contromano. Uno in retromarcia. Un semaforo che brilla in tricromia. Un tizio che vendeva fazzoletti di carta.

Dìllomi. Pronunciato con le guance gonfie, come un Dubois qualunque che pontifica sulla baguette.

Diamoglili. Con la faccia di un roditore cui diano fastidio i baffi.

Togliamocèle. Poverina, c’era quasi, e amo la rima con varicocele.

Contemplo i rottami fumanti e gli sguardi smarriti e dichiaro chiusa la lezione.

Per riprendermi, la settimana dopo tengo una lezione sui colori e sulla moda italiana. Si immaginano da Prada in Montenapoleone, le signore.

Racconto, in inglese, la storia del sarto Angelo Litrico, nemmeno parente, purtroppo. Il sarto della Dolce Vita, riuscito nel miracolo di vestire allo stesso tempo Andreotti, Mastroianni e il Papa. Racconto dei manichini con le misure di Eisenhower, di De Gaulle, di Krushev (che picchio’ una scarpa Litrico sul podio durante un discorso all’ONU), di Kennedy, che voleva sapere dove avesse comprato i suoi abiti quel contadino rivestito che era anche il segretario del Partito Comunista in Russia.

Racconto della sua amicizia con Christian Barnard, il pioniere dei trapianti di cuore, e delle centinaia di bambini cui pago’ il viaggio della speranza a Citta’ del Capo, per farsi operare da lui.

Racconto di Borsalino, dei suoi cappelli, del suo peculiare controllo di qualita’ dei materiali (lo si mastica, per sapere se e‘ buono, cribbio…), di Alice nel Paese delle Meraviglie e del perche’ il Cappellaio Matto fosse matto (risposta: il mercurio, quello che si usava per trattare il feltro).

E poi le sorelle Fontana, Armani e Versace, Valentino e Dolce e Gabbana.

Tutto, tutto, pur di non cominciare a parlare del congiuntivo e del condizionale.  Una malattia orribile, che colpisce un italiano su due.

Per il condizionale, nel tempo ho trovato una soluzione: prendere “vorrei” e “potrebbe” e attaccare un verbo all’infinito. “Vorrei andare a Piazza Navona..” “Potrebbe portarmi il menu’?”. Un kit di sopravvivenza nell’inferno urbano di Roma.

Sul congiuntivo, ancora brancolo nel buio. Ogni tanto mi viene in sogno una lezione dal futuro, quando dopo 10-15 anni di italian full immersion, qualcuno dira’ “Credo che lei si sbagli” e  si guardera’ allo specchio con gli occhi sbarrati, come Maria davanti all’Angelo dell’Annunciazione, di fronte a un mistero insondabile finalmente svelato.

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